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Paola Claudia Scioli

#italiaunicaqui –  Volterra, alle porte di Pisa, tra le 10 città finaliste al titolo di Capitale italiana della Cultura 2022, chiude il 2020 con il primo Natale dell’alabastro. Protagonista la luce, simbolo della rigenerazione e della rinascita. Mentre nel mondo si accendono gli alberi di Natale, nella medievale piazza dei Priori di Volterra, si illumina l’installazione “Arnioni in piazza” della designer internazionale Luisa Bocchietto. L’opera è in alabastro “scaglione”, quello più trasparente e puro, estratto da millenni dalle terre volterrane. Una pietra naturale versatile, raffinata, dalle mille sfumature, che emana una luce brillante e che continua essere il motore della vita di questa misteriosa città dalle origini antichissime.

Volterra, La fortezza Medicea

L’alabastro di Volterra è considerato il più pregiato d’Europa. È diverso da quello orientale a base di carbonato di calcio, molto diffuso nell’antico Egitto per la produzione dei tipici vasetti per oli da massaggio e profumi che i Greci chiamavano appunto ἀλάβαστρoi (alabastroi). L’alabastro che si estrae dal sottosuolo di Castellina Marittima alle porte di Volterra, infatti, è una pietra gessosa a base di solfato di calcio idrato, formatosi nel periodo miocenico in seguito ad un processo di sedimentazione e concentrazione del solfato di calcio contenuto nelle acque marine. La presenza del mare ha lasciato anche un’altra eredità preziosa a questo territorio: immensi giacimenti di sale, al centro di tante guerre nel passato e “moneta” per pagare le truppe sin dai tempi dei Romani. Saline, piccola frazione nella campagna volterrana, ancora oggi ne produce in gran quantità.

Il colore di queste terre, diverso dal resto della Toscana, varia dal giallo al beige chiaro. Anche l’alabastro cambia aspetto, colorazione e consistenza al variare della composizione chimica del terreno, mostrando varie venature che lo fanno spesso confondere con il marmo per bellezza, pur essendo più morbido e malleabile. I primi ad accorgersene furono gli Etruschi, che fecero di Volterra un centro di eccellenza per la costruzione di sarcofaghi e urne cinerarie con decorazioni arricchite dalla pittura o da sottilissime lamine d’oro. Molti esempi di queste tombe sono custodite nel Museo Guarnacci di Volterra, nel Museo Archeologico di Firenze, nei Musei Vaticani, al Louvre di Parigi o al British Museum di Londra raffiguranti l’immagine del defunto sdraiato sul coperchio del suo sarcofago, o su un’urna immerso in scene di vita quotidiana o in viaggi nell’oltretomba o in episodi della mitologia greca.

Volterra, Palazzo dei Priori (foto di ©A.Bagnoli)

Poco usato nel Medioevo, l’alabastro tornò in auge nel tardo Rinascimento per non tramontare mai più. Alla fine del Settecento a Volterra si contavano 8 o 9 botteghe artigiane. A metà dell’Ottocento erano salite a una sessantina e i produttori volterrani iniziarono a viaggiare per far conoscere e vendere la loro produzione in tutto il mondo. Migliorarono le tecniche di lavorazione, crearono le prime scuole per tramandare un mestiere diventato arte e che oggi si vuole mantenere tale, evitando di far degenerare la lavorazione dell’alabastro in una produzione meramente commerciale, come succede per i mosaici di Spilimbergo (Pordenone). La visita all’Ecomuseo dell’Alabastro consente di conoscerne i vari momenti: estrazione della pietra (sede di Castellina), lavorazione e vendita (sede di Volterra all’interno della medievale Torre Minucci Solaini, adiacente alla Pinacoteca Comunale, in via dei Sarti).

Volterra non è però solo la città dell’alabastro e del sale. Rimasta fuori dai circuiti turistici di massa, con i suoi tremila anni di storia, testimoniati da una ricca stratigrafia, è tra le poche città italiane in grado di offrire un’immagine nitida del tempo passato e del susseguirsi delle civiltà, che hanno modificato man mano l’assetto urbano. Inoltre è riuscita a mantenere vive le caratteristiche tipiche di una “città diffusa” con la sua acropoli, di origini etrusche, circondata da poderose mura nelle quali si aprono tante porte, quante sono le vie di collegamento con il territorio circostante.

Volterra ,Porta etrusca all’Arco

Mura e porte che hanno resistito attraverso i secoli: Porta Docciola (una delle più antiche nei pressi della quale si trova ora l’area sosta camper), Porta Marcoli, Porta a Selci, Porta Fiorentina, Porta San Francesco (sulla quale hanno resistito tracce degli affreschi che decoravano tutte e porte volterrane), Porta San Felice. Dall’alto della Rocca costruita da Lorenzo De’ Medici nel punto in cui si trovava l’antico Palazzo dei Vescovi distrutto dai fiorentini, utilizzata da subito come carcere, la vista è spettacolare: un immenso territorio disseminato di piccoli “borghi”, dove da sempre si vive e si lavora: Sant’Alessandro, Santa Maria, San Lazzaro, Santo Stefano, San Giusto. È questo il motivo per cui Volterra non può essere definita un “borgo”. I borghi sono la città bassa per i volterrani, orgogliosi della loro città che hanno sempre difeso strenuamente dagli “stranieri”, una città che non è mai stata e non è “in vendita”. Non c’è stato qui l’assalto degli stranieri per accaparrarsi case, palazzi storici e casali. E questo continua a garantirne la genuinità. Così, quello che vediamo oggi è l’impianto urbanistico medievale di una piccola città dove cultura, arte e artigianato si respirano ovunque e dove il paesaggio contribuisce a esaltare l’alone di mistero, di solitudine e di romantica tristezza che la pervade. Molti gli antichi e caratteristici edifici. Tra questi spiccano la cattedrale romanica dell’Assunta e la Torre del Porcellino (la più antica).

Volterra, La cattedrale (foto di ©A.Bagnoli)

Ma Volterra, nella nostra memoria, rimane una delle 12 Città-Stato etrusche (le lucumonie), che hanno combattuto a lungo per la loro indipendenza contro i Romani a Sud e i Galli a Nord. Nel V-IV sec. a.C. era circondata da una poderosa cinta muraria di oltre 7 km che abbracciava e difendeva non solo l’acropoli, ma anche le terre circostanti destinate a pascolo o all’agricoltura in modo da garantire la piena autonomia in caso di assedio. Il riutilizzo di tratti di queste mura e delle sue porte (Porta all’Arco e Porta di Diana) in epoca romana e medievale ne ha garantito la sopravvivenza. L’impronta data alla città dagli Etruschi e poi dai Romani è viva ancora oggi. Purtroppo, i materiali (legno, terracotta e argilla cruda) utilizzati per la costruzione degli edifici, anche quelli di culto, erano troppo fragili e deperibili per resistere al correre del tempo. Le ricerche archeologiche hanno però dimostrato che già nel VII sec. a.C. sull’acropoli i numerosi piccoli insediamenti sparsi si riunirono a formare un’unica grande città, Velathri, affacciata su un ampio territorio circostante e che ha mantenuto il suo prestigio anche dopo la sottomissione a Roma nel 260 a.C. e durante l’età imperiale. Lo confermano i resti dell’acropoli etrusco-romana del Parco Archeologico Enrico Fiumi, sul pianoro a ridosso della fortezza medicea, con edifici che vanno dal VII a.C. al III sec. d.C. e le innumerevoli testimonianze custodite nel Museo Guarnacci con una delle più importanti e ricche collezioni di opere d’arte etrusca in Italia.

Colline volterrane (foto ©A.Bagnoli)

E pure l’area archeologica di Vallebuona poco oltre le mura medievali, con il teatro e le terme realizzati a spese della famiglia Cecina all’inizio dell’età imperiale. Il teatro, costruito sfruttando il pendio naturale del terreno con due ordini di gradinate e ben 19 file di sedili separati da stretti passaggi semicircolari, è visitabile e di grande impatto visivo, anche se molte parti sono crollate già nel III sec. d.C. e possono solo essere immaginate. Alcuni materiali del teatro furono poi utilizzati per costruire il limitrofo impianto termale in uso dal III al VI sec. d.C., del quale rimangono solo la parte inferiore dei muri. Non ancora visitabile, invece, ma straordinaria testimonianza di un’epoca di grande splendore per la città, è l’anfiteatro romano del I sec. d.C. all’interno delle mura ellenistiche a pochi passi dalla Porta Diana, dal teatro e dalla necropoli del Portone, scoperto nel 2015 e in corso di scavo da parte della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Pisa e Livorno sotto la guida dell’archeologa Elena Sorge. La sua eccezionale estensione (82 x 64 metri con una cavea a tre ordini di gradinate e un’altezza complessiva di circa 10 metri) fa presagire che potesse ospitare fino a 10.000 persone. Un’enormità per l’epoca!

 

Author: Carola Vai

Laureata in Lingue e Letterature straniere, giornalista e scrittrice. Ha lavorato in varie testate tra le quali: “la Gazzetta del Popolo”, “La Stampa”, “Il Mattino” di Napoli, “Il Giornale” di Montanelli. Passata all’AGI (Agenzia Giornalistica Italia) dal 1988 al 2010, è diventata responsabile della redazione regionale Piemonte-Valle d’Aosta. Relatrice e moderatore in convegni in Italia e all’estero; Consigliere dell’Ordine Giornalisti del Piemonte fino al 2010, poi componente del consiglio di amministrazione della Casagit (Cassa Autonoma Assistenza dei Giornalisti Italiani) dove attualmente è sindaco effettivo. Tra i libri scritti “Torino alluvione 2000 – Per non dimenticare” (Alpi Editrice); “Evita – regina della comunicazione” (CDG, Roma ); “In politica se vuoi un amico comprati un cane – Gli animali dei potenti” (Daniela Piazza Editore). "Rita Levi-Montalcini. Una donna Libera" Rubbettino Editore)