Dario Gedolaro
Finora era stato un arcivescovo dal basso profilo. Ma la Festa di San Giovanni ci ha fatto scoprire che il Cardinale di Torino, Roberto Repole, sa essere battagliero e senza peli sulla lingua. Se questo sarà il suo stile, è un bello stimolo per una città che perde abitanti, giovani e imprese.

Ma che cosa ha detto Repole? Il suo è stato un grido di allarme e una chiamata alla responsabilità collettiva e individuale su temi “caldi”, come l’inverno demografico e la fuga dall’imprenditorialità. Due argomenti che sono fra loro interconnessi più di quanto si pensi. Repole è partito dal grave problema della denatalità. Ha parlato di “fallimento culturale epocale”, di ’’emergenza” numero uno per la città: la mancanza di bambini e di giovani.
Di che cosa stiamo parlando in concreto? “La notizia durissima di questi giorni – ha sottolineato il cardinale – è che a Torino il calo demografico sta svuotando le scuole,ormai anche le superiori: l’anno prossimo in città ci saranno 1.147 allievi in meno e il trend, è inutile dirlo, va avanti anche negli asili; a livello piemontese saranno 7.300 in meno. Sempre meno bambini, si preparano ad essere gli adulti di domani”.
“E’ stupido – ha proseguito – che sia stato sempre deriso e snobbato, considerato bigotto l’insegnamento della Chiesa a sostegno della maternità…è triste e un po’ inquietante, per la tenuta stessa della democrazia, che il termine pro-vita sia ormai diventato quasi un insulto da affibbiare ai movimenti che pongono il problema della natalità. Scritte violente e insultanti sono comparse ancora pochi mesi fa sui muri di Torino. Essere pro-vita sembra essere medievali, mentre essere pro-morte, a favore dell’eutanasia, suona moderno, supposto che sappiamo che cosa significa evolverci. Mi sembra che ci stiamo suicidando”.
Due le cause principali di questo fenomeno, sulla cui drammaticità era intervenuta non molto tempo fa anche l’associazione degli imprenditori: da un lato l’iperliberismo, che porta a un individualismo spinto e allo sfuggire dalle responsabilità; dall’altro la precarietà economica: “C’è un problema di aziende che spostano la produzione lontano dalla città, mentre a Torino il 75% dei giovani (quelli che restano) trovano spesso lavori precari, contratti di pochi mesi o addirittura giorni: come pretendiamo che mettano su famiglia e facciano figli?”.
Si è creata, poi, una situazione che un tempo sembrava assurda per la “capitale industriale” d’Italia: “L’ immobilizzazione del denaro accumulato dai grandi proprietari di patrimoni, che preferiscono tenerlo nelle banche, in quantità immense, piuttosto che investirlo nel circuito delle imprese e nello sviluppo dell’economia reale”.
“Non si può certo pretendere che i proprietari di patrimoni – ha aggiunto il cardinale – investano senza prospettive di reddito adeguato. Ma allora bisogna convincerli, bisogna portarli dalla parte della città. Il problema è una città che non riesce a convincerli. Torino ha immense sacche di povertà, ma paradossalmente è anche la terza città d’Italia per numero di famiglie benestanti, che l’anno scorso hanno incrementato i patrimoni privati di un altro +6%: 76 miliardi di euro sono chiusi nelle banche”.
Come spesso si afferma ed è stato scritto da autorevoli osservatori: c’è un problema di classe dirigente, che in questi anni non è apparsa adeguata ad affrontare la crisi e, quindi, la trasformazione della città, che non sa “trattenere i giovani che si laureano a Torino”. Le parole del cardinale sono state chiare: c’è bisogno di cambiare rotta, chi ha responsabilità istituzionalisi dia da fare per la comunità torinese. Bisogna “ripartire da una intelligenza feconda e una politica alta in grado di dare dignità a tutti”.