Dario Gedolaro
Sconcerto ma anche imbarazzo e interrogativi, questo suscita il grave fatto di sangue di Milano, in cui un detenuto che godeva del permesso di lavorare fuori dal carcere ha ucciso una donna di origine dello Sri Lanka e ferito gravemente un collega di lavoro. Riesplode la polemica se sia giusto o no concedere certi benefici a chi sta scontando una pena detentiva per reati gravi e anche se le pene inflitte dai tribunali siano adeguate.
Il caso di Emanuele De Maria, l’omicida poi suicida che è tornato a uccidere, pone infatti questo doppio problema. L’uomo, che lavorava da fine 2023 all’hotel Berna come receptionist, nel 2016 aveva ammazzato a coltellate, a Castel Volturno, una giovane prostituta tunisina di 23 anni.
Era stato arrestato nel 2018 in Germania dopo un periodo di latitanza, durante il quale ha avuto una figlia nei Paesi Bassi, una bimba che oggi ha circa 8 anni, altra vittima innocente della follia di quest’uomo. Era stato condannato nel gennaio del 2019, in primo grado a 14 anni di reclusione a fronte di una richiesta del pm di 30 anni. Pena poi ridotta in secondo grado a 12 anni. Accogliendo parzialmente la tesi difensiva, furono escluse tutte le aggravanti: dalla premeditazione ai motivi abbietti, fino alla crudeltà. Per il tribunale si trattò di un delitto d’impeto.
Dopo essere stato rinchiuso nel carcere di Rebibbia, a Roma, De Maria fu trasferito a Secondigliano (NA). Lì è rimasto poco meno di cinque anni, durante i quali ha scritto una lettera a un giornale tedesco che si occupa delle condizioni dei reclusi. Oggi quello scritto appare particolarmente sgradevole, perché lamenta come nelle carceri italiane sia lontano il concetto di “recupero”.
«L’Italia, con la sua mentalità medievale è indietro di 50 anni, ignorante nel pensiero e malvagia nei gesti – scrive–quando un’istituzione non è in grado di mostrare la luce a un detenuto sta commettendo un crimine più grave di quello commesso dalla persona che è stata arrestata e messa in prigione”.
Parole che stridono fortemente con la sua vicenda carceraria, visto che gli è stata concessa la semilibertà con un regolare lavoro retribuito dopo solo poco più di cinque anni dalla condanna e sei dall’arresto. Insomma, quasi come se avesse commesso un furto con strappo, per cui la pena può andare dai 4 ai 7 o ai 10 anni a seconda delle aggravanti. Certo De Maria ha potuto godere del rito abbreviato che automaticamente riduce le condanne di un terzo, ma c’è da domandarsi perché gli è stato concesso il rito abbreviato e che cosa bisogna fare per prendersi l’aggravante della “crudeltà”, visto che la povera prostituta tunisina era stata accoltellata con furia dall’omicida? O forse la vita di una donna tunisina, oltretutto prostituta, non vale quella di un’italiana?
Perché anche questo dovrebbero domandarsi i commentatori che ritengono di essere “progressisti” e che oggi si stracciano le vesti contro chi critica la vicenda giudiziaria e carceraria dell’uomo. Scrive infatti Alessandro Trocino sul Corriere della Sera: ”Le reazioni politiche a destra hanno il riflesso giustizialista e repressivo che ci si poteva aspettare”. E, a proposito della presa di posizione dell’on. Maurizio Gasparri (Forza Italia) – “Le valutazioni della magistratura sono state evidentemente sbagliate” – ribatte: “Non è per nulla «incredibile» che un femminicida possa fruire di permessi. Tutti i detenuti possono, se ci sono le condizioni di legge”. Trocino fa una ricostruzione puntuale, ma fredda e burocratica, delle norme di legge che consentono un iter carcerario come quello di De Maria. Non tocca, però, il punto centrale: come mai solo 12 anni, contro i 30 chiesti dal pm? E, ancora, è possibile che ci sia un sistema così premiale da consentire agli assassini di non farsi nemmeno quei “pochi” anni di carcere a cui sono condannati e li rimette rapidamente in libertà (anche se parziale) senza tenere sotto “stretto” controllo il detenuto che ne usufruisce. Ad esempio De Maria si era andato a cacciare in una storia sentimentale complicata, evidentemente destabilizzante per la sua contorta psiche, e proprio per tale ragione era stato rimproverato dal suo stesso collega di lavoro, che per questo è stato accoltellato a sua volta.
Purtroppo non è il primo caso del genere, anche se Trocino tiene subito a precisare che su 898 detenuti che hanno usufruito di benefici o misure alternative al carcere solo l’8,2 per cento non ha rispettato le regole e se l’è viste revocare e l’1,2 per cento è tornato a commettere reati. In effetti quest’ultimo dato è basso, ma bisogna sommarlo a quello precedente, cioè di detenuti che non hanno rispettato le regole e quindi potenzialmente ancora tendenti a delinquere (e poi ci sono quelli che pur non rispettando le regole la fanno franca). Quindi si sale a quasi il 10%. Non così poco. E allora ci si può domandare: è giusto che per perseguire il condivisibile obiettivo del reinserimento sociale si debba mettere in pericolo la vita delle persone?
Trocino scrive ancora dell‘ ”illusione che la linea dura, il carcere senza speranza” siano la soluzione. Ma neanche il buonismo, la manica larga e la superficialità nel gestire il problema carcerario lo sono. Pesano come un macigno le semplici parole del marito della vittima: “Fate più attenzione quando date la libertà a chi ha commesso un omicidio volontario”.
E non è solo la destra a rimanere perplessa. Hanno il pregio del buon senso le parole del sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che non si può definire di destra: “Indubbiamente è difficile da spiegare ai cittadini come, dopo un omicidio, la condanna sia di 14 anni e dopo non molti anni il condannato possa uscire. Queste sono le leggi, per cui non saprei neanche che commento fare. Certamente è una questione”. La cultura del politicamente corretto senza se e senza ma fa venire in mente il grande Alessandro Manzoni, che nei Promessi Sposi a proposito della peste di Milano scrive: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”.