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Dario Gedolaro

Sono tornati all’onore delle cronache il Lingotto e il Palazzo del Lavoro di  Torino . Due giganti che possono essere presi a simbolo di una certa incapacità della classe politica torinese a progettare il futuro: in crisi, il primo, da anni in stato di abbandono il secondo. Ma ora si riparla di un loro rilancio.

Centro fieristico del Lingotto – Torino

Ripercorrere le loro vicende serve per capire tante cose. Partiamo dal Lingotto. I francesi di GL Events, proprietari della fetta più importante, il Lingotto Fiere, hanno gettato la spugna: in estate hanno annunciato che avrebbero chiuso a meno che non fosse possibile creare una società mista pubblico-privata, insomma hanno chiesto a Regione e Comune di cogestire con loro questo grande contenitore. E, dopo molti tentennamenti, nelle scorse settimane i due enti pubblici hanno chiesto allo Stato di dare loro le risorse per intervenire. Meglio tardi che mai si potrebbe dire.

IL LINGOTTO E LA POLITICA MIOPE

Negli Anni 90 il Lingotto era diventato uno dei cavalli di battaglia per disegnare un futuro post manifatturiero di Torino. Si favoleggiava di una metropoli del terziario avanzato e del turismo soprattutto d’affari. Ma proprio la mano pubblica che di quella trasformazione tanto parlava – Comune, Provincia, Regione Piemonte – rifiutò di rilevare dalla Fiat il Lingotto Fiere e lo lasciò finire nelle rapaci mani di Alfredo Cazzola (era il 1998), imprenditore bolognese che organizzava il Motorshow. Decisione sciagurata, in primo luogo perché Cazzola portò a Bologna il Salone Internazionale dell’Auto, il più importante appuntamento fieristico del Piemonte, e lo fuse col Motorshow. Ma decisione ancora più sciagurata perché si regalò a Cazzola il marchio del Salone Internazionale dell’ Auto, cosa che impedisce ancora oggi a Torino di rifare questa manifestazione.

Un rifiuto miope, visto che in tutte le grandi città d’Europa ancora oggi i poli fieristico- congressuali vedono la presenza degli enti pubblici. Eppure il complesso Lingotto appariva una location assolutamente avveniristica. Era stato ristrutturato (da fine Anni 80), con un pesante esborso economico soprattutto di Fiat. Giovanni Agnelli aveva sostenuto questa trasformazione per motivi affettivi, tanto che aveva poi trasferito gli uffici direzionali della Fiat da corso Marconi alla storica Palazzina di via Nizza, dove c’ era ancora la sala foderata di boiserie scura in cui suo nonno dagli Anni 20 presiedeva i consigli di amministrazione. L’ Avvocato aveva lanciato nel 1982 anche un concorso di idee per la trasformazione del Lingotto cui avevano partecipato 20 archistar di livello mondiale (fu però poi Renzo Piano a firmare il progetto di riqualificazione dell’ intero comprensorio).

Ma i lungimiranti tre capi delle nostre amministrazioni pubbliche non vollero aprire il borsellino, anzi, si racconta di una frase rivolta a Cesare Romiti: “Dottore, se non lo vuole più il Lingotto ce lo regali”, che chiuse qualsiasi possibilità di trattativa. Non solo, la “collaborativa” Milano ha nel frattempo costruito (2005) un grande nuovo polo fieristico/congressuale a Rho, sulla direttrice di Torino, a 45’ di treno. Colpo mortale, eppure non c’ è stato uno solo dei nostri politici che abbia fatto presente che un simile progetto (finanziato abbondantemente con soldi pubblici) avrebbe almeno dovuto essere collocato su un’altra direttrice.

Palazzo del Lavoro – Italia ’61 – Torino

PALAZZO DEL LAVORO IL GIOIELLO ABBANDONATO

La storia del Palazzo del Lavoro è altrettanto emblematica. Disegnato dal grande Pier Luigi Nervi, con la collaborazione dell’archistar Gio Ponti, fu inaugurato nel 1961 per le celebrazioni del Centenario dell’Unità d’Italia. Terminate le manifestazioni di “Italia ‘61”, fu via via trascurato e, quindi, definitivamente abbandonato dalla città. Si perse anche l’ occasione delle Olimpiadi del 2006 per riutilizzarlo (al contrario del Palazzo a Vela). Eppure si tratta di un notevole esempio di architettura contemporanea, citato e lodato da riviste specializzate di tutto il mondo.

Il problema sembrava risolto pochi anni fa, quando una multinazionale olandese ha presentato un progetto da 250 milioni di euro per ristrutturarlo nel rispetto delle linee architettotiche e trasformarlo in un centro commerciale non alimentare; dava lavoro a qualche centinaio di persone era dotato di parcheggi e di una nuova viabilità in ingresso e in uscita. Siccome siamo a Torino e non a Milano, prima si è opposto il comitato di quartiere (per paura dell’ eccesso di traffico automobilistico!), poi i negozianti del centro commerciale del Lingotto (per paura della concorrenza). La frittata l’ha fatta però il Comune (sindaco Fassino), che ha sbagliato la delibera di autorizzazione alla ristrutturazione e per questo è stata bocciata dal Tar. Gli olandesi, allibiti e increduli, si sono ritirati. Da agosto scorso il palazzo è di proprietà dello Stato mediante la Cassa Depositi e Prestiti. Questa giunta comunale, che sembra voler mettere in cantiere ora (in vista delle elezioni) molto di quello che non ha fatto in quattro anni, ha ripreso in mano l’iter di riqualificazione avviando la conferenza dei servizi. Ma non si parla più del progetto (evidentemente difficilmente realizzabile) del Museo della Scienza e della Tecnica (un altro museo a Torino!) immaginato dall’ ex vicesindaco, Guido Montanari, quello che ha fatto scappare l’esposizione internazionale di auto dai viali del Valentino, uno da “poche idee, ma confuse”.

Reggia di Venaria – Venaria Reale – (Torino)

QUEI RUGGENTI ANNI ‘90

D’altronde, se torniamo ai “ruggenti Anni 90”, quando la Fiat stava scricchiolando, chiudeva fabbriche (Rivalta, Chivasso) e tagliava decine di migliaia di posti di lavoro, si capiscono tante cose sull’ incapacità di un’intera classe dirigente torinese, che pure manifestava ottimismo: “Nessuna paura, abbiamo valide alternative, il futuro sarà ancora più roseo, ci affrancheremo dalla Fiat”. E già, c’ erano due fra le più grandi banche italiane, la Cassa di Risparmio di Torino e l’ Istituto Sanpaolo, c’ era il numero uno delle assicurazioni del settore automotive, la Sai, c’ era un’altra importantissima presenza assicurativa, la Toro, per non parlare della Seat (la “gallina dalle uova d’ oro” di Telecom), erano partiti i lavori della Reggia di Venaria (1998). Come è andata a finire la sappiamo: Cr Torino (dal ’97) e Sanpaolo (dal 2007) non ci sono più, la prima del tutto, il secondo inglobato da Banca Intesa (ed oggi tutte le direzioni più importanti sono a Milano), Toro assicurazioni è scomparsa cannibalizzata dalle Generali (2006), Sai pure, travolta da una crisi gravissima e assorbita da Unipol (2014), Seat si è ridotta, ha mutato nome ed andata pure lei a Milano. Sarebbe ora di cambiare passo e, tanto per cominciare, di avere un sindaco di alto profilo e competenza.

 

Author: Carola Vai

Laureata in Lingue e Letterature straniere, giornalista e scrittrice. Ha lavorato in varie testate tra le quali: “la Gazzetta del Popolo”, “La Stampa”, “Il Mattino” di Napoli, “Il Giornale” di Montanelli. Passata all’AGI (Agenzia Giornalistica Italia) dal 1988 al 2010, è diventata responsabile della redazione regionale Piemonte-Valle d’Aosta. Relatrice e moderatore in convegni in Italia e all’estero; Consigliere dell’Ordine Giornalisti del Piemonte fino al 2010, poi componente del consiglio di amministrazione della Casagit (Cassa Autonoma Assistenza dei Giornalisti Italiani) dove attualmente è sindaco effettivo. Tra i libri scritti “Torino alluvione 2000 – Per non dimenticare” (Alpi Editrice); “Evita – regina della comunicazione” (CDG, Roma ); “In politica se vuoi un amico comprati un cane – Gli animali dei potenti” (Daniela Piazza Editore). "Rita Levi-Montalcini. Una donna Libera" Rubbettino Editore)